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Influenze


Nell'opera omnia di Johann Wolfgang von Goethe, la via del neoclassicismo si rispecchia in tutta la sua pienezza, integrità, forza innovatrice ed elogio dell'Antico. E' interessante constatare quante e quali amicizie si intrecciassero allora tra i vari letterati, in quante e quali vivaci dispute fossero impegnati questi uomini di spirito e quanti cadaveri molti di loro si lasciassero alle spalle.
Il suicidio di von Kleist si può in parte spiegare con il giudizio implacabile che Goethe impartì ai lavori di quest'anima sfortunata.

(Goethe diresse a Weimar La brocca rotta, ma la commedia non piacque. Kleist diede la colpa dell'insuccesso alla cattiva messa in scena, e questo portò al litigio con Goethe. Sulla rivista Phöbus, Kleist sarebbe arrivato a scrivere mordaci epigrammi contro il suo più celebre collega...)

Diciamo subito che, dietro al mito di Goethe-genio universale, non campeggia il Sopra-Uomo. Anzi: come individuo egli non fu scevro di debolezze, e i personaggi che creò o che trasse di peso dalla cronaca quotidiana (Werther) oppure da opere ispirate ai modelli classici e tardo-rinascimentali (Ifigenia, Faust), sono spesso condannati alla sofferenza per causa di un'imperfezione che altro non è se non l'imperfezione stessa dell'umana natura.
Il grande dilemma della vita è la discordanza tra proposito iniziale e risultato finale.

In Goethe è evidente la coscienza della separazione dell'io-soggetto dal mondo empirico. La modernità di Goethe consiste appunto - come in Hölderlin - nella "separazione radicale dell'individuo borghese dal suo campo sociale [...], la sua mediata non opposizione ad esso" (Mangaldo). Il "sensismo" del genio tedesco ha influenzato il nostro Leopardi, che di lui doveva conoscere I dolori del giovane Werther.
Già al suo primo apparire, questo romanzo epistolare causò una serie impressionante di suicidi a catena: molti lettori, identificatisi con Werther, vollero condividerne la tragica sorte.

" 'Conosci te stesso'? Se conoscessi me stesso scapperei via."

Nel corso della sua lunga vita, Goethe ha intrapreso tante fughe, volgendo le spalle a situazioni per lui imbarazzanti cui non riusciva a far fronte con il solo "contegno borghese" o con la proverbiale calma olimpica. Da una di queste fughe risultò il celeberrimo Viaggio in Italia.
Per J.W. l'evasione è un venire meno al soffrire, ma non al lottare: la lotta è inevitabile, sempre e in ogni luogo. Non è una lotta politica, la sua, non è una ribellione de facto alla società e/o al sistema vigente, ma, piuttosto, un "accomodamento", un districarsi, un venire a patti con le avversità dell'esistenza.

Non siamo di fronte a un esempio di codardia. Goethe era forse opportunista, ma non vigliacco. Come entità sociale, come cittadino con incarichi diplomatici, seppe sempre prendersi le sue brave responsabilità e si impegnò per il raggiungimento del più umano e più ragionevole dei compromessi; come uomo di lettere, condannò il borghesismo più crasso e ogni aspetto di mentalità bigotta, contrapponendovi una tolleranza universalista e inneggiando all'amore, alla fraternità, alla libera fantasia. Questo si manifesta chiaramente soprattutto nel West-östlicher Divan, dove viene lanciato il messaggio della necessità di incontri interculturali e di una proficua unione tra le due massime culture (l'occidentale e la levantina) contro ogni motto nazionalista, contro la xenofobia e i gridi di guerra.

[Il West-östlicher Divan è l'unica opera in versi di Goethe pubblicata mentre il poeta era ancora in vita (!). Più tardi si scoprì che almeno tre delle più belle poesie contenute nel Divan furono scritte da Marianne Willemer. La Willemer era una trentenne già sposata per la quale si infiammò il cuore dell'ultrasessantenne Goethe. Nel Divan, Marianne e Wolfgang si sono dati i nomi di "Suleika" e "Hatem".]

Se mai Goethe fu intollerante, lo fu nei confronti di ogni forma di violenza. Anche per questo guardò con palese scetticismo alla Rivoluzione Francese e ai moti che, sulla scia della Rivoluzione, scoppiarono in diverse parti d'Europa.

Affrontò la vita con un ragionevole stoicismo, ma la sua sopportazione fu messa spesso a dura prova. Il suo livello di guardia era basso. Goethe era un individuo suscettibile, che non tollerava offese di sorta. A questo proposito, esemplare è la sua relazione weimariana con la matura Carlotta von Stein.

"Nessuno viene mai ingannato: ci si inganna da sé."

Alle radici dell'umanesimo tedesco o Neuhumanismus, di cui Schiller fu l'altra grande stella, c'è il concetto dell'appartenenza dell'uomo a se stesso. Ma il mondo è instabile, contingente, relativo, forse una mera farsa degli dèi, e l'individuo, sia pure non autosufficiente, deve imparare ad adeguarsi e a schivare i mille ostacoli sul percorso.

Vogliamo ribadirlo: il romanticismo "classicista" di Goethe e Schiller non può essere degradato a sinonimo di moderazione; non può essere posto agli antipodi dello Sturm und Drang. Vi è, nella tematica delle loro opere, una certa risonanza trasgressiva che va a sposarsi con quell'aspirazione all'assoluto che si esercita nel linguaggio: un'ascesi linguistica parzialmente convenzionalizzata ma che, a ben guardare, travalica i dettami della loro epoca. In entrambi - Goethe e Schiller - si denota l'educazione al senso del limite, che si manifesta in oltranza demiurgica, nell'ordine delle parole. Ma sicuramente c'è più pathos nelle opere di Schiller che in quelle di Goethe. Effettivamente, l'idealismo schilleriano è più variamente interpretabile di quello di Goethe, la cui "veduta delle cose" è, al contrario, saldamente ancorata al Realismus. Soprattutto dai trentacinque-quarant'anni in poi, la personalità di Goethe si sviluppò in direzione antitragica, il poeta acquisì una certa flemma, la capacità di osservare le cose mantenendo un certo distacco, e proprio per questo il discorso fra lui e il mondo è ancora aperto e attuale. La maturità fa sì che il suo gesto creativo sia attuato con calma pindarica. Magari nell'intento primario, nell'impeto immediatamente successivo al lampo d'intuizione, ha il trasporto caratteristico dello Sturm und Drang; ma l'occhio rimane limpido e pacato.

Ad accomunare i due più grandi letterati tedeschi è, oltre al loro attaccamento per i temi classici, la disciplina semantico-sintattica. Questo non significa ovviamente che Goethe e Schiller pregiassero l'esprit du sérieux e disprezzassero il sano, rinfrescante dilettantismo che fece da sfondo a gran parte della letteratura (e della scienza!) del Settecento. Al contrario. Più di una volta Goethe dichiarò di reputarsi fondamentalmente un dilettante. E' dalle sue svariate letture, condotte spesso in modo disordinato - per curiosità, per voracità spirituale, più che per necessità -, che egli attinge la sua professionalità. D'altra parte, l'"uscire allo scoperto" con un'opera che predica se non una Verità quantomeno un eticismo (quanto sottomesso al contingente?) e che rivendica i valori più sinceri dell'"umanità", presuppone un grande rispetto per la Lingua letteraria. In Goethe ciò avviene sotto l'insegna di una chiarezza espressiva che cerca il suo pari. Si può benissimo affermare che il poeta di Francoforte, insieme a Schiller e a pochi altri esponenti del Neuhumanismus, abbia gettato le basi per il tedesco moderno.

A parte il Werther (risultato di un tour de force di quattro settimane e scritto senza uno schema prestabilito), ogni castello narrativo è sostenuto da una rigida intelaiatura. La tecnica di Goethe consisteva nell'erigere dapprima lo "scheletro" della costruzione e solo in un secondo momento scegliere le parole con le quali ricoprirlo. Come pensatore non era un sistematico, cioè non ordinò mai "matematicamente" la sua filosofia. E' accertato che, fin da ragazzo, Goethe odiò la matematica. I numeri sono forme immobili e "le forme immobili dicono di no alla vita. Formule e leggi matematiche spargono un'immobilità sopra il quadro della natura. I numeri uccidono. Essi sono i padri di Faust, che troneggiano nella più completa solitudine." Tuttavia, anche un matematico può arrivare a sentire in sé "la bellezza del vero". Nella fattispecie, Pitagora ed Euclide sono più prossimi al senso di "bellezza" di quanto non lo siano Leibniz e Newton. Goethe non rimase indifferente a certe ben riuscite figure e combinazioni matematiche. Sulla contabilità a partita doppia di Luca Pacioli (1494), scrisse: "E' una delle più belle scoperte dello spirito umano".

In Goethe non ci sono finzioni in senso stretto, ma concetti, ideali, stati. Lo scrittore prende la giusta distanza dal tema centrale prima di cominciare col montaggio romanzesco o - nel caso dei drammi - col telaio metrico e strofico. Le sue non sono opere di sperimentazione artistica, né mera riproposta di temi "classici", ma vero e proprio impegno analitico: una - per quell'epoca anticonvenzionale - confessione scientifico-psicologica; e, quindi, autoterapia.

L'autoterapia è assolutamente indispensabile per tenersi a galla nello scompiglio di eventi esterni e per riconfermare la propria sanità. Il genere umano è "intrecciato", "annodato", "intricato" ("verschlungen und verknüpft"; "...so wunderbar ist das Leben gemischt" - in: West-östlicher Divan). Nessuno di noi può rinunciare al contatto con gli altri individui. I compromessi sono inevitabili, e, per assurdo, il riscatto può avvenire solamente tramite l'agire.
C'è una sostanziale differenza tra il divenire e il divenuto. Goethe è per il divenire (= entusiasmo, accrescimento, slancio vitale), non per il divenuto (= staticità, ozio, morte). Le conseguenze dell'agire, tuttavia, sono incerte. "Der Handelnde ist immer gewissenlos; es hat niemand Gewissen, als der Betrachtende." ("Chi agisce non è mai consapevole. Solo l'osservatore lo è.")

"Fin da quando ho sentito dire che, in fin dei conti, ognuno di noi ha una propria religione, mi è sembrato logico crearmene una mia."

Goethe era forse antirazionalista? O fu fedele alla Logos? Era ateo o credente?

In primo luogo era poeta e uno scienziato. Non manca nelle sue opere - soprattutto in quelle in versi - l'intervento di ciò che Freud definisce l'unheimlich, ovvero l'"inquietante", il "sinistro", il "non-familiare"; elemento che non è necessariamente in relazione con il divino così come esso è concepito dalle religioni monoteiste. Ma sarebbe insensato affermare che egli fosse stato ateo, dato che nel suo sistema di valori giusto le divinità rappresentano i principi ispiratori dell'etica.
Gli dèi sono prototipi e proiezioni di altrettanti topoi umani. E, come vuole la mitologia classica, possono essere miopi e fallaci; inoltre è accertato che sono capricciosi. Ergo: gli dèi determinano ogni azione umana... in maniera irrazionale.
Il trascendentalismo di Goethe tende verso un discreto panteismo, con una punta di determinismo à la Marco Aurelio. E' la stessa contrapposizione magia-fede che conosciamo attraverso il conflitto interiore di Enrico Faust. Per forza di cose, la conoscenza umana è parecchio limitata.

La presenza del sovrannaturale può ancora essere intuita dal nostro pensiero; ma come si spiega l'oltre-naturale?

Goethe gioca volentieri con il fantastico (o immaginario), e non solo nel Faust. (Un esempio ne è la sua poesia sul Re degli elfi.) Ma persino il fantastico - per quanto trascendentale - si sottopone al giogo della disciplina, della chiarezza strutturale della lingua. Così, l'ineffabile goethiano ha alla fin fine ben poco di inquietante, presentandosi come un dato di fatto credibile, più vicino alla coscienza che non al sogno. Tali Unheimlichkeiten restano comunque qualcosa di innaturale che avviene "fuori" del soggetto, nella dimensione del non-io. Sono altro, sono ombra; sono alieni persino a Dio, il quale, essendo intuibile, è con la natura ed è la natura, è con l'uomo e dentro l'uomo - è, in una parola, vivo. A Eckermann , J.W. Goethe scrisse: "L'afflato divino è efficace dove c'è vita, non dove c'è morte."

"Quando si comincia a riflettere sulla propria condizione fisica o spirituale, di solito si finisce con l'ammalarci."

In Goethe c'è una ben definita barriera, uno steccato invalicabile che separa il sé pensante dal mondo. (E con mondo si intende tanto la sfera delle cose reali quanto quella delle cose percepite). Ovviamente questa barriera non basta a scongiurare l'impulso - irrazionale? - di evadere a più riprese anche dalla propria realtà intima, il desiderio di obliare e di obliarsi che, nei suoi scritti, si traduce in una collusione con l'esotico. Ed ecco che abbiamo la perlustrazione di terre straniere, le allusioni ai miti già cari agli Elleni e alla letteratura francese (primo fra tutti: Racine).

La Grecia era sinonimo di Antichità, un passato idealizzato; e quindi meritevole di essere cantata in versi - preferibilmente in esametri. Se nei sogni del neoclassicismo tedesco quel mondo occupa una posizione più centrale rispetto all'Italia, è anche per una questione fisica: allora la Grecia era più distante, più difficilmente raggiungibile, e rimaneva perciò avvolta in un manto d'idealismo. L'Italia era, al confronto, quasi a portata di mano; era uno scrigno di tesori incommensurabili, ma anche ricca di insidie e perigli di ogni genere (all'epoca di Goethe imperava il brigantaggio), e dunque un soggetto grosso modo prosastico. Logico dunque che il Sehnsucht o Spleen di molti versatori (anglo)sassoni vertesse sull'ideale più distante e improbabile: quello della bellezza assoluta, delle "perfette rovine". L'Italia comunque era (ed è) sempre valida per dar spunto a pagine su pagine di diari di viaggio; un'immensa travelogy di cui ancora non si intravede la fine.


Articolo di Peter Patti (peterpatti.geo@yahoo.com) tratto dal suo sito "Goethe"
www.eloyed.com/goethe.htm

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